Cappella Sistina, particolare del Giudizio Universale

Cappella Sistina, il capolavoro di Michelangelo Buonarroti

17/12/2021
Blog SaintsTour

Cappella Sistina, un magnifico capolavoro. La sua edificazione, nella forma in cui è giunta sino a noi, si deve a papa Sisto IV – pontefice dal 1471 al 1484 – sulle preesistenze di una precedente cappella. La sua funzione non era quella di una chiesa vera e propria, in cui si celebravano messe aperte al pubblico: questa cappella era riservata alla sola corte papale. L’edificio fu ultimato presumibilmente intorno al 1481 e dedicato a Maria Assunta in Cielo; la prima messa vi venne solennemente celebrata il 15 agosto 1483. La sua natura di cappella “privata” dei palazzi pontifici non escludeva il fatto che vi venissero ammessi anche ospiti e visitatori esterni – come diplomatici e sovrani – cui era riservata la porzione di spazio delimitata dalla transenna in marmo tuttora presente nella cappella. È naturale, dunque, che il papa desiderasse conferire all’ambiente un aspetto quanto più opulento e sfarzoso possibile, chiamando i più illustri artisti dell’epoca, a decorare le mura di un edificio che, dal punto di vista architettonico, è poco più di un semplice parallelepipedo. Il ciclo di affreschi venne concepito come una Biblia Pauperum, una Bibbia dei Poveri, che illustrasse le storie dall’Antico e del Nuovo testamento (i poveri erano analfabeti, non potevano leggere i testi sacri, e dunque necessitavano di un racconto per immagini degli stessi).

La porzione inferiore del muro venne affrescata con drappeggi e finti arazzi, mentre il secondo registro fu riservato a scene della vita di Mosè e scene della vita di Gesù. A partire dalla primavera del 1481, la cappella vide la presenza contemporanea di Sandro Botticelli, Pietro Perugino, Pinturicchio, Cosimo Rosselli, Piero di Cosimo, Domenico Ghirlandaio e Bartolomeo della Gatta. Dopo un po’ Perugino diede forfait (ma non prima di aver completato Il Battesimo di Cristo, che è anche l’unica opera firmata di tutta la cappella; il Viaggio di Mosè in Egitto e la celeberrima Consegna delle Chiavi) e gli subentrò Luca Signorelli. La presenza contemporanea di così tanti artisti di primo piano, assai diversi per cifra stilistica ed inclinazione personale, avrebbe potuto comportare un risultato assai disomogeneo e incoerente; tuttavia, ciò che colpisce è proprio la straordinaria unitarietà degli affreschi, che costituiscono un ciclo pittorico nel vero e proprio senso del termine. Il merito sta nella concezione iconografica alla base dell’intero progetto: innanzitutto tutti adottano la medesima scala, cioè le medesime dimensioni delle figure; i riquadri narrativi, corrispondenti ai vari episodi affrescati, sono ripartiti in modo uniforme e omogeneo; la scala cromatica è anch’essa piuttosto omogenea e molto armoniosa, non ci sono colori dissonanti e su tutto predomina una significativa presenza dell’oro che, alla luce tenue delle candele che illuminavano la cappella, doveva rilucere sommessamente, con un effetto assai suggestivo. Le note auree ritornavano anche nelle stelle del soffitto blu cobalto affrescato da Piermatteo D’Amelia, secondo una consuetudine molto diffusa nel Medioevo.

Cappella Sistina Michelangelo e gli affreschi della volta

Di lì a pochi anni, tuttavia, il terreno a bassa portanza su cui sorgeva la Cappella Sistina cedette parzialmente, determinando l’apertura di una vistosa crepa sul soffitto. Papa Gulio II, in carica dal 1503 al 1513, fu costretto a chiudere l’ambiente per riparare la volta pericolante, e, visto che c’era, decise anche di farla ridipingere, dato che il cielo stellato era comunque molto rovinato. Si rivolse così a Michelangelo, una sua vecchia conoscenza, al quale aveva affidato la realizzazione della propria sepoltura monumentale (che oggi si trova, assai ridimensionato rispetto alle intenzioni originarie, nella chiesa di San Pietro in Vincoli); le cose, in realtà, non erano andate benissimo – basti pensare che il progetto fu affidato al Buonarroti nel 1505 e che il lavori iniziarono solo nel 1544, quando il papa era morto da circa trent’anni – ma il pontefice, nonostante i dissapori, decise comunque di affidarsi a Michelangelo, che nel 1508 scese a Roma, per firmare il contratto e mettersi all’opera. Il primo problema che dovette affrontare era legato proprio alla porzione di cappella da affrescare: come raggiungere il soffitto? Costruendo una particolare impalcatura a gradoni, progettata e realizzata dallo stesso Buonarroti, che non lasciasse segni o addirittura buchi sulla superficie da dipingere. Subito dopo l’inizio dei lavori, poi, l’intonaco cominciò ad ammuffire; anche questa volta Michelangelo, con l’ombrosa caparbietà che gli era propria, non si perse d’animo e rimosse il vecchio intonaco per stenderne uno nuovo, con un impasto particolare inventato da un suo collaboratore, Jacopo Torni detto l’Indaco. La commissione di Giulio II prevedeva che l’artista realizzasse solo dodici figure, quelle degli Apostoli; quando nel 1521 Buonarroti depose il pennello, sulla volta della Sistina se ne dispiegavano più di trecento, che animavano le Storie della Genesi, le Storie dell’Antico Testamento, le Sibille e i Profeti e gli Antenati di Cristo. Non male per un artista che per tutta la sua vita si è considerato sempre e solo uno scultore…

Poteva mancare Raffaello? Leone X e gli arazzi

Alla morte di Giulio II, il suo successore Leone X pensò al modo di arricchire ulteriormente l’opulento apparato decorativo della cappella, e appuntò la sua attenzione sul registro inferiore delle pareti, quello dipinto a finti drappi. “Perché non sostituire gli arazzi finti con quelli veri?” dovette domandarsi il pontefice, e subito donò alla cappella una serie di preziosissime tappezzerie (dieci per la precisione) disegnate da Raffaello e intessute a Bruxelles nella bottega del fiammingo Pieter Van Aelst nel 1514. Benché non realizzati all’uopo, questi arazzi presentano una grande coerenza concettuale ed iconografica con il resto della decorazione. Innanzitutto per i soggetti raffigurati, le Storie dei Santi Pietro e Paolo, ovvero dei due Apostoli fondamentali per la diffusione del Cristianesimo presso gli Ebrei, il primo, ed i pagani, il secondo. In secondo luogo, i singoli episodi rappresentati negli arazzi, trovavano una corrispondenza negli affreschi soprastanti. Gli arazzi erano appesi solo nella porzione di cappella riservata al clero, quella al di là della transenna marmorea, e non erano esposti permanentemente, ma messi in opera solo in occasione di ricorrenze e celebrazioni di particolare rilievo. Oggi trovano collocazione permanente nella Pinacoteca dei Musei Vaticani.

Il ritorno di Michelangelo e il Giudizio Universale

Nel Rinascimento, per i sovrani religiosi e laici, legare il proprio nome a quello di grandi artisti e di opere mirabili da tramandare ai posteri era un fatto di prestigio personale, l’ostentazione di una grandezza che non aveva eguali presso i contemporanei. Una sorta di gara tra ricchi e potenti a chi era più ricco e più potente. Un po’ come le storie di Instragram dei nostri giorni, fatte le debite proporzioni. Non sorprende, dunque, che anche papa Clemente VII desiderasse imprimere il suo sigillo su quello scrigno d’arte che era ed è la Cappella Sistina, facendo affrescare la parete dietro l’altare con un Giudizio Universale che portasse a compimento la narrazione che si snodava lungo le pareti e sulla volta. Pensò dunque di rivolgersi nuovamente a Michelangelo, che all’epoca era attivo senza troppo entusiasmo a Firenze. Buonarroti accettò, benché svogliatamente, e nel 1534 tornò a Roma per mettersi al lavoro. La realizzazione dell’affresco, che è considerato dai più un vero spartiacque dell’arte rinascimentale, iniziò solo sotto papa Paolo III ed immediatamente divamparono le polemiche.

Innanzitutto, per il caos e l’angoscia che sembrano pervadere l’intera raffigurazione, quasi a simboleggiare un mondo ormai privo di certezze ed in balia di sé stesso, senza più la luminosa guida dell’ingegno umano su cui tanto avevano puntato i fautori del primo Rinascimento. Poi, Michelangelo aveva osato rappresentare in una cappella, in un luogo sacro, delle figure nude; e, si badi bene, non erano nudi solo i dannati, fatto che sarebbe pure stato ritenuto accettabile, ma era nudo Cristo, che col suo gesto terribile e perentorio, proprio al centro della parete (proprio sopra l’altare!!) divideva i giusti dai pravi.

Uno dei primi a tuonare contro l’oscenità e l’immoralità dell’affresco michelangiolesco fu il cardinal Pietro Carafa, che avrebbe voluto far rimuovere seduta stante gli affreschi. Paolo III, per tutto il resto del suo pontificato, si limitò a fare spallucce alle critiche, non permettendo a nessuno di apportare la benché minima modifica all’affresco. Le cose cambiarono, però, in seguito al Concilio di Trento (1545-1563), allorché si decise di affidare al pittore Daniele da Volterra, che di Michelangelo era stato apprendista, il compito di coprire le pudenda delle figure che affastellavano il Giudizio Finale; da Volterra eseguì diligentemente guadagnandosi il poco lusinghiero appellativo di “Braghettone”. Per fortuna, Buonarroti era già morto da tempo.

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